Cenni di storia della fotografia

C'è poco da fare, prima o poi bisogna confrontarsi con la storia della fotografia.

Oltre che essere interessante per sapere come essa si sia evoluta è utile anche per  comprendere meglio sé stessi, le proprie aspirazioni, le proprie inclinazioni.
Su internet, il grande nulla condiviso, non c'è poi molto, o meglio se cerchiamo nozionismo e frammentazione ne troviamo a bizzeffe, l'approfondimento invece è sempre il solito fantasma.
Cercherò di tracciare una storia della fotografia meno tecnica e più "sociologica", per quanto mi sia possibile, visti i miei evidenti limiti culturali.

Non mi interessa approfondire molto la storia del XX secolo, che troviamo descritta quasi ovunque.



Origini del processo fotografico.


Ogni ricerca sui libri che si occupano di storia fotografica rivela uno schema evolutivo assai complicato, fatto di scoperte che rimasero sconosciute e di osservazioni effettuate  in diversi periodi di tempo. Gli storici non concordano su alcuni particolari e l'orgoglio nazionale conferisce una particolare colorazione ai fatti. Nessuno scoprì la fotografia e vi sarebbe da discutere persino su chi fu il primo fotografo. Soltanto un fatto è chiaro: la fotografia nacque dalla sintesi delle conoscenze chimiche e fisiche possedute all'inizio del secolo diciannovesimo. Già nel 1900 aveva raggiunto uno stadio di sviluppo non lontano da quello attuale, per quanto riguarda la fotografia in  bianco e nero.

Si può quindi affermare che quantunque il ventesimo secolo abbia portato ad uno sviluppo grandioso della fotografia applcata, e all'evoluzione delle sue diramazioni (fotografia a colori, e cinematografia), il processo fotografico sia una scoperta del diciannovesimo secolo.

Il primo accenno della camera oscura venne fatto da Aristotele, che si era accorto della possibilità di proiettare l'immagine del Sole in una stanza buia attraverso un piccolo foro; nei Problemata, descrive il percorso dei raggi solari che attraversano un'apertura quadrata e formano un'immagine circolare, la cui grandezza aumenta con l'aumentare della distanza dal foro. Anche gli Arabi sembra utilizzassero una sorta di camera oscura nella quale osservavano, sulla parete opposta al foro, l'immagine capovolta di oggetti posti all'esterno.
Alhazen (Ibn-al-Haitham sec. XI) considerò il fenomeno della persistenza delle immagini retinee, per cui dopo aver guardato un oggetto molto splendente (per esempio il Sole), anche ad occhi chiusi, si continua a vederla per lungo tempo; inoltre osservando che se si guarda una sorgente molto intensa si prova fastidio ne dedusse che la visione doveva avvenire grazie ad un agente inviato dalla sorgente all'occhio (lumen, luce - radiazione).
Ruggero Bacone descrisse un fenomeno, simile a quello già descritto da Aristotele, nel 1267 (De Multiplicatione specierum) e alla fine del sec. XIII, tale fenomeno era utilizzato per osservare più comodamente le eclissi di Sole, come è riferito in un Almanacco di Guglielmo di Saint-Cloud del 1290 (ms. 7281 fondo latino della Bibliotheque Nationale di Parigi).
La prima descrizione veramente precisa e completa della camera oscura nel senso moderno della parola si deve a Leonardo da Vinci che la descrisse, intorno al 1500, in maniera inequivocabile nel Codice Atlantico, suggerendo anche l'applicazione di una piccola lente nel foro stenopeico; in modo simile ne parlò Cesare Cesariano nei Commenti a Vitruvio (Como 1521).
Fino al XVI sec. la camera oscura era una vera stanza buia (da ciò deriva il nome di camera tuttora largamente usato per indicare una macchina fotografica); solo a cominciare dal XVI secolo si costruirono camere oscure a forma di scatola, e quindi facilmente trasportabili; queste nella prima metà del XVII secolo, vennero utilizzate anche dai pittori come guida per disegnare in prospettiva, come quasi sicuramente fece il grande Michelangelo Merisi, detto Caravaggio.

Qui potete leggere interessanti informazioni sull'uso della camera oscura da parte dei pittori.

Francesco Maurolico (Photismi de Lumine et Umbra ad Perspectivam et radiorum incidentiam facientes scritti nel 1521, ma pubblicati a Napoli nel 1611) studiò dal punto di vista matematico il passaggio della luce attraverso piccole aperture. Girolamo Cardano (1501 Pavia - 1576 Roma) dimostrò la necessità della lente convergente per migliorare la qualità dell'immagine.
In seguito il veneziano Daniello Barbaro (Pratica della Prospettiva - Napoli 1568) dimostrò la necessità della messa a fuoco, l'utilità del diaframma per ottenere immagini più nitide e migliorò il sistema applicando una lente piano-convessa al foro di ingresso della luce nella camera oscura (1568); dopo di lui diversi studiosi (G.B. Benedetti nel 1585) perfezionarono ulteriormente il sistema stesso apportandovi modifiche e introducendo altri particolari. 

Durante il '700 in particolare la camera oscura si diffuse come strumento di lavoro dell'artista e come curiosità. Un capanno o tenda portatile veniva dotato di una lente e di uno specchio il quale, dal soffitto inviava l'immagine su un tavolo da disegno, dove veniva ripassata con la matita. Le lenti biconvesse allora impiegate fornivano immagini di qualità scadente e, benché il primo doppietto acromatico per telescopio di Dolland (1758) rappresentasse un passo avanti,  i tavoli da disegno erano spesso concavi in modo da correggere la curvatura di campo.
Non deve sorprendere quindi che alla fine del '700, la gran voga di cui godeva la camera oscura ed il miglioramento delle immagini ottenute provocassero il desiderio che le immagini stesse si imprimessero da sole sulla carta.
I mutamenti chimici provocati dalla luce, che costituiscono l'altra radice principale della fotografia, furono anch'essi notati in tempi molto remoti, ma si limitarono alla constatazione che la luce scolorisce le tinte. Le altre reazioni fotochimiche vennero attribuite al calore e all'aria.
Nel 1725 il Prof. J. Schulze, dell'università tedesca di Altdorf, notò che una bottiglia contenente acido nitrico, argento e gesso mostrava uno scurimento del suo contenuto sul lato rivolto verso una finestra assolata. Procedendo per esclusione egli provò che l'effetto era dovuto alla luce e non al calore. Quanto al gesso, constatò che esso serviva solo a procurare uno sfondo chiaro all'argento metallico nero. Ponendo delle sagome di carta intorno alla bottiglia, Schulze riuscì persino a "stampare" sul gesso lettere e parole. Sfortunatamente le osservazioni di Schulze, che si occupava in realtà di anatomia, rivestivano un carattere del tutto secondario e benché egli inviasse le proprie note all'Accademia Imperiale di Norimberga, non si pensò allora di trarne applicazioni pratiche.
Le due componenti della fotografia, quella ottica e quella chimica, posso così considerarsi note, seppure separatamente, sin dal 1725; per combinarle assieme sarebbe stato necessario attendere gli inizi del secolo seguente.

Thomas Wedgwood, uno dei figli di Josiah Wedgwood, famoso ceramista dello Staffordshire, prendeva assai sul serio la scienza in un'epoca di entusiastica sperimentazione dilettantesca. Suo padre usava una camera oscura per disegnare case di campagna che poi venivano riprodotte sui servizi di piatti di porcellana.
Nel 1802 Sir Humphrey Davy, pubblicò un articolo in cui riferiva dei successi ottenuti dal suo amico Wedgwood nello stampare profili di foglie e disegni sul vetro, avvalendosi dell'azione della luce sul cuoio bianco intriso di una soluzione di nitrato d'argento. Purtroppo Wedgwood non sapeva come fissare le immagini, le quali, nonostante ripetuti lavaggi e laccature, finivano presto per annerirsi se esaminate ad una luce più forte di quella di una candela.
Sino alla sua morte prematura, verificatasi all'età di 34 anni, Wedgwood non riuscì mai a registrare le immagini prodotte da una camera oscura.


La prima immagine registrata chimicamente.


J. Nicephore Niepce  si congedò dall'esercito francese a circa quaranta anni, per andare a vivere nelle sue proprietà site nella valle della Loira e benché la rivoluzione avesse fatto diminuire le fortune della famiglia, egli possedeva ancora sufficienti risorse finanziarie da dedicare, con la propria intelligenza, alla ricerca tecnica.
Nel 1813 la nuova arte della litografia godeva di grande favore in Francia e Niepce, poco dotato come disegnatore, cercò di usare la camera oscura per ottenere immagini permanenti su una pietra da litografia da destinare poi alla stampa.
I primi tentativi, compiuti sulla scorta delle pubblicazioni chimiche dell'epoca, egli li compì usando della carta cosparsa di cloruro d'argento. Dopo varie ore di esposizione nella camera oscura, ottenne alcune deboli immagini della veduta offerta dalle sue finestre.
Le immagini erano ovviamente negative e grazie ad un parziale fissaggio con acido nitrico potevano essere osservate alla luce del giorno seppure per un tempo abbastanza breve.
Niepce era tuttavia dominato dal desiderio ottenere direttamente un'immagine positiva su pietra o metallo, da poter usare come lastra da stampa.
Dopo alcuni anni egli fece ricorso al bitume bianco di Giudea, spalmato sul peltro. Grazie a lunghe esposizioni il bitume induriva nelle parti luminose dell'immagine; il resto veniva asportato con olio di lavanda disponibile sul posto, rivelando il peltro scuro sottostante, ottenendo così direttamente un'immagine positiva.
Niepce riuscì a registrare un'immagine del proprio cortile usando questo procedimento nel 1826, anche se alcuni storici, in disaccordo su questa data, indicano l'anno 1824.




Questa è la lastra originale:


Si è calcolato che l'immagine abbia richiesto circa otto ore di esposizione.
Il risultato è rozzo in quanto manca praticamente di mezzi toni, e non costituì risposta al problema di ottenere una lastra da stampa litografica.
Tuttavia la maggior parte degli esperti ritiene questa la prima fotografia permamente.
Niepce chiamò le immagini ottenute dalla propria camera oscura col nome di "eliografie", cioè disegni fatti dal sole.
Come oggi sappiamo il bitume non ebbe futuro come materiale fotografico, in virtù della sua scarsissima sensibilità e della cattiva qualità dei risultati. Gli esperimenti di Niepce però non passarono inosservati in Francia ed erano destinati a provocare la scoperta di un altro processo fotografico di maggiore validità.


Il dagherrotipo.


Niepce comprava ogni camera oscura presso notissimi ottici, i fratelli Chevalier a Parigi, i quali vennero a conoscenza dei suoi esperimenti eliografici e comunicarono il suo indirizzo ad uno dei loro clienti parigini.
Costui era Louis Jaques Daguerre, anch'esso in cerca del modo di fissare chimicamente le immagini fornite dalla camera oscura.
Daguerre era una persona alquanto estrosa, pittore teatrale, comparsa e dilettante di scienze naturali, affascinava da alcuni anni Parigi con uno spettacolo chiamato "Diorama".
Grandi panorami dipinti su schermi translucidi venivano illuminati con proiettori controllati da otturatori.
Regolando opportunamente l'illuminazione sul lato bianco o su quello dipinto degli schermi si ottenevano dissolvenze ed altri effetti ottici che rendevano maggiormente graditi agli spettatori le visioni di luoghi remoti o di edifici famosi.
Daguerre usava la camera oscura per eseguire gli schizzi dei panorami occorrenti al diorama ed aveva tentato da tempo di registrare chimicamente sui sali d'argento le immagini ottenute.
Niepce e Daguerre iniziarono cauti contatti epistolari e quindi fecero reciproca conoscenza restando, a quanto si dice, assai favorevolmente impressionati l'uno dell'altro.
Nel 1829 essi divennero soci, al fine di perfezionare gli eliogrammi.
Fu però una collaborazione sterile.
Daguerre si rese subito conto dei limiti del procedimento basato sul bitume ma, nonostante i suoi incitamenti, l'ormai anziano Niepce non ritenne di doversi applicare alla sperimentazione degli alogenuri d'argento. Sembra quindi che Daguerre comprese ben presto che avrebbe dovuto fare tutto da solo.
Egli lavorò diligentemente ed in segreto per alcuni anni, usando una lastra di rame argentata ed esposta al vapore di uno ioduro;  sulla lastra veniva così a formarsi uno strato di ioduro d'argento sensibile alla luce.
Tuttavia, pur usando uno dei migliori obiettivi Wollaston, riuscì a produrre una immagine di sufficiente densità soltanto nel 1835.
E pare che ciò sia avvenuto per caso: una lastra sottoesposta era stata lasciata in una credenza per una notte ed il mattino successivo mostrava toni assai più densi.
Daguerre iniziò quindi un controllo minuzioso del contenuto della credenza e giunse alla conclusione che il resposabile dello sviluppo era stato il mercurio di un termometro rotto.
Lo sviluppo ai vapori di mercurio fu forse il passo decisivo in quanto permetteva di ottenere buoni risultati con solo mezz'ora di esposizione.
Nel 1837 il procedimento di Daguerre divenne commerciabile ed era costituito dalle seguenti fasi di lavorazione:

  1. Una lastra di rame argentata veniva lucidata e sospesa a faccia in giù al di sopra di uno ioduro riscaldato.
  2. La lastra veniva esposta nella camera oscura circa 30 minuti per scene ben illuminate dal sole e con obiettivo a tutta apertura. Ciò produceva un annerimento appena percettibile nelle zone illuminate.
  3. La lastra così impressionata veniva sospesa su del mercurio riscaldato i cui vapori aderivano alle aree esposte alla luce sotto forma di deposito bianco, formando così una netta immagine positiva.
  4. Si eliminava lo ioduro di argento con una soluzione calda di sale da cucina (più tardi si usò l'iposolfito di sodio), ottenendo come risultato un'immagine positiva bianca e opaca su uno sfondo di argento lucido: l'osservazione richiedeva una certa cura per evitare i riflessi dello sfondo.
Secondo Daguerre tale procedimento, frutto solo dei propri sforzi, avrebbe dovuto essere chiamato "dagherrotipo"; infatti dopo alcune diplomatiche discussioni con Isidore Niepce (figlio di J. Nicephore e suo successore nella società con Daguerre) il termine "eliografia" fu lasciato bonariamente cadere. Daguerre quindi si occupò di trovare i quattrini per fondare una società per azioni.
Tuttavia l'impossibilità di reperire capitali sufficienti ed un incendio che distrusse il diorama misero Daguerre in grosse difficoltà finanziarie.
Per fortuna Argo,  amico di Daguerre e membro della camera dei deputati francese, indusse il governo a riconoscere pubblicamente l'importanza della scoperta e a concedere a Daguerre e Niepce una pensione statale. In cambio Daguerre rinunziò al brevetto (che tuttavia depositò in Inghilterra).
Nel 1839 fu approvato uno speciale disegno di legge ed il 19 agosto Argo comunicò in maniera spettacolare i particolari del procedimento dagherrotipico ad una seduta congiunta delle Accademie delle Scienze e delle Belle Arti.

Uno scrittore contemporaneo, Ludwig Pfau, in "Kunst und Gewerbe"  riferiva:

"... Passo passo, riesco ad intrufolarmi tra la folla... Dopo una lunga attesa si apre una porta sul fondo ed il primo ad uscire si precipita nel vestibolo. "ioduro d'argento" grida uno, "mercurio" urla un'altro, mentre un terzo sostiene che la sostanza segreta è l'iposolfito di sodio... Un'ora dopo tutti i negozi di ottica vennero presi d'assalto, ma non poterono racimolare strumenti sufficienti a soddisfare l'esercito assalitore degli aspiranti dagherrotipisti; dopo pochi giorni, su tutte le piazze di Parigi facevano bella mostra di sé scatole nere piazzate su tre zampe davanti a chiese e palazzi."

Non c'è da meravigliarsi se i pittori realisti affermati, come Delaroche, gridassero disperati: "Da oggi la pittura è morta".

Si noti che gli obiettivi con apertura massima di circa f/11, uniti alla scarsa sensibilità del materiale dagherrotipico, limitavano il campo di applicazione della fotografia all'architettura e alle nature morte. Nel 1841 però l'introduzione della fotocamera Voigtlander, munita di obiettivo Petzval f/3.6, ridusse il tempo di esposizione a circa un minuto, rendendo materialmente possibile il ritratto.
I dagherroti ebbero un successo infinitamente maggiore di quello ottenuto dagli eliogrammi di Niepce, tuttavia la popolarità goduta per oltre 20 anni, alla fine tramontarono anch'essi. Essi infatti soffrivano delle seguenti limitazioni:

  1. L'uso di un materiale non trasparente rendeva assai difficoltosa la stampa di copie. Per la stessa ragione, le dimensioni della fotografia dipendevano dalle dimensioni della fotocamera, o dalla qualità dell'obiettivo.
  2. La fotografia risultava con i lati invertiti, a meno che non si facesse uso di un sistema di specchi.
  3. La fotografia era difficile da osservare a causa dello sfondo riflettente.
  4. Infine vennero elaborati altri materiali assai più sensibili.


Il calotipo.


Se Daguerre  era un esibizionista superficiale, il suo contemporaneo inglese, William Henry Fox Talbot, aveva una mentalità feudale.
Figlio di titolati di Lacock Abbey nello Wiltshire, dotato di istruzione universitaria, già membro del Parlamento, scrittore, scienziato dilettante e viaggiatore, Talbot usava la camera oscura per compiere degli schizzi durante i propri viaggi di piacere all'estero.
Nel 1834 egli iniziò i propri esperimenti usando della carta imbevuta di cloruro di argento e riuscì ad ottenere stampe a contatto di oggetti quali merletti o simili.
I negativi venivano resi permanenti immergendoli in una soluzione salina concentrata.
Egli usava disporre quà e là, nelle sue proprietà, piccole fotocamere di legno, dotate di obiettivi e caricate con carta al cloruro.
Dopo circa un'ora di esposizione, ogni apparecchio registrava un'immagine negativa.
Nel 1835 Talbot riuscì ad ottenere stampe a contatto positive, la prima delle quali è forse  quella tratta dal negativo di una finestra a grata di Lacock Abbey.
Si tratta del primo fotogramma ottenuto col procedimento negativo-positivo.



Talbot lavorava lentamente ed aveva compiuto pochi progressi quando, nel 1839, gli giunse notizia da Parigi dell'invenzione di Daguerre.
In tutta fretta decise di pubblicare i suoi lavori nello stadio cui erano giunti, e presentò memorie sul "disegno fotogenico" alla Royal Institution e alla Royal Society.
Ciò diede buoni frutti: Sir John Herchel suggerì di usare il tiosolfato di sodio (o iposolfito) quale fissatore di maggior efficacia ed oltretutto coniò i termini di "fotografia", "positivo" e "negativo".
Continuando nei suoi esperimenti Talbot nel 1840 cominciò a far uso dello ioduro di argento, compì poi l'importante scoperta, grazie ad un suggerimento di Reade del 1839, che l'acido gallico sviluppava immagini sino ad allora considerate a malapena visibili o addirittura latenti.
Continuò ad usare carta imbevuta di cloruro di argento per le sue stampe a contatto.
Agli inizi del 1841 Talbot brevettò il procedimento migliorato noto col nome di "calotipo" e successivamente detto "talbotipo".
Il procedimento consisteva nel deporre uno strato di ioduro di argento e di ioduro di potassio su carta da scrivere di buona qualità, trattandola poi con nitrato di argento, acido acetico ed acido gallico.
La carta veniva poi esposta nella fotocamera per 5 minuti in media dopo di che su di essa veniva deposto un nuovo strato di acido gallico e di nitrato di argento; la carta veniva quindi riscaldata davanti al fuoco, sviluppandosi in circa due minuti, quindi fissata e lavata.
Le stampe venivano eseguite a contatto su carta al cloruro, utilizzando la luce solare.
Inutile a dirsi, le stampe ottenute da Talbot dai primi negativi di carta allo ioduro non reggevano il confronto con gli squisiti particolari e la ricchezza tonale dei dagherrotipi, e poiché i diritti da pagare ai detentori di ambo i brevetti erano pressapoco uguali in Inghilterra, il procedimento di Talbot non incontrò molto favore.
Per porre rimedio a tale stato di cose, Talbot produsse calotipi di panorami che vennero posti in vendita da cartolai e negozianti d'arte in tutta la Gran Bretagna. Per produrre le stampe egli acquistò alcuni locali a Reading, a metà strada da Lacock Abbey e Londra, ed assunse personale apposito. Ciò gli servì a dimostrare la superiorità del talbotipo sul dagherrotipo per quanto concerneva la riproduzione di copie multiple.
Nel 1844 Talbot compì un passo di portata storica pubblicando "The Pencil of Nature" (la matita della natura), che fu il primo libro al mondo illustrato con fotografie.
L'opera fu stampata in sei volumetti, che oggi costituiscono rarità da collezione, che contenevano 24 talbotipi originali e riferivano sull'opera svolta dall'inventore inglese.
I soggetti andavano dai panorami alle vedute architettoniche, alle nature morte, alla riproduzione di incisioni, ai fotogrammi di merletti ecc.
Va notato che ciò avveniva con 16 anni di vantaggio sulla prima riproduzione fotomeccanica con inchiostro da stampa.
Nelle illustrazione di "The Pencil of Nature" Talbot raggiunse alti livelli qualitativi, ma ciò non servì a risparmiargli severe critiche  per il costante ricorso alle privative di brevetto e alle azioni penali contro chi le infrangesse.
Forse se l'Inghilterra avesse onorato Talbot come la Francia aveva fatto con Daguerre, non si sarebbe giunti all'imposizioone di un monopolio sulla fotografia inglese... Intanto Talbot continuava a coprire con brevetti tutti i miglioramenti e persino ad appropriarsi di scoperte altrui lasciate in libero uso.
Ad esempio molti fotografi aspiravano a migliorare la qualità delle fotografie e ritenevano che ciò fosse possibile usando del vetro come supporto del materiale sensibile. Il problema stava nel reperire un collante che fosse capace di contenere i sali e che non si dissolvesse durante il trattamento.
Nel 1847 Niepce de Saint-Victor, cugino di Nicephore Niepce, scoprì che l'albume d'uovo era adatto alla bisogna in quanto permetteva la registrazione di particolari minuti, per contro l'emulsione così ottenuta richiedeva pose di 10 minuti ed era complicata da preparare. In ogni caso Talbot brevettò procedimenti simili nel 1849 e nel 1851, ostacolandone la diffusione in Inghilterra (ma non in Scozia dove i suoi brevetti non erano estesi).
Albume e nitrato di argento apparivano molto adatti al rivestimento della carta per positivi dove la finezza di particolari era molto più importante della sensibilità.
Nel 1850 tale proposta fu avanzata in Francia da Blanquart-Evrard e, poiché il procedimento non fu brevettato da Talbot, la carta all'albume divenne il più diffuso materiale da stampa in Inghilterra, ove rimase in uso sino alla fine del secolo.
Alla metà del diciannovesimo secolo, la gran maggioranza dei fotografi professionisti di Inghilterra, del resto d'Europa e d'America usavano ancora il dagherrotipo per i ritratti.
I suoi vantaggi stavano nella rapidità di produzione commerciale e nella maggiore sensibilità che permetteva pose più brevi.
Si accumularono fortune colossali: un ex mercante di carbone londinese, Richard Beard, incassò 40.000 sterline con la propria catena di studi nel solo primo anno di attività; a Berlino operavano 200 dagherrotipisti e New York contava 71 studi con 127 operatori, nel solo anno 1849 a Parigi furono prodotti 100.000 dagherrotipi.
I pochi che usavano il procedimento di Talbot lo facevano o perché il procedimento, più adatto alle manipolazioni, dava risultati meno "meccanici", o perché si potevano produrre copie a basso costo. Anche la ricchezza dei toni e la bellezza della trama erano però notevoli.
I primi talbotipisti tra cui Hill e Adamson in Scozia, produssero ritratti di rara finezza.
Tra i laboratori di stampa si stava guadagnando una solida reputazione quello di Blanquart-Evrard in Francia, che produceva stampe illustranti viaggi nel medio oriente, architetture esotiche ecc.
I 40 assistenti di Blanquart-Evrard stamparono centinaia di migliaia di fotografie su carta all'albume utilizzando un procedimento talbotipico modificato.
In America invece, nonostante che il talbotipo fosse regolarmente registrato il dagherrotipo godeva di un monopolio virtuale.
Pochi si resero conto del fatto che il dagherrotipo aveva raggiunto i limiti delle sue possibilità e che lo sviluppo futuro nel campo dei materiali fotografici dipendeva dal procedimento negativo-positivo. Né tra il 1850 ed il 1860 ci si sarebbe immaginato che in pochi anni sia il dagherrotipo, sia il talbotipo sarebbero divenuti altrettanto obsoleti della eliografia di Niepce.


Il collodio.


Il 1851 fu un anno importante per la fotografia: in Francia morì Daguerre; in Gran Bretagna, sul numero di marzo della rivista londinese "The Chemist" apparve un articolo di un certo Frederik Scott Archer. Costui era un oscuro scultore di Londra, che si era dedicato alla fotografia animato da un interesse creativo.
Come molti altri talbotipisti, Archer era insoddisfatto della trama fibrosa delle negative di carta, che rovinava la qualità dell'immagine. Per fare aderire i sali di argento ad una lastra di vetro, supporto ideale privo di fibre, egli suggeriva di usare una soluzione di fulmicotone (trinitrocellulosa) in alcool ed etere, nota sotto il nome di collodio. Tale soluzione era stata introdotta nel 1847 da Schoenbein al fine di depositare una membrana protettiva trasparente su tagli e ferite.
Il processo al collodio di Archer (detto processo a lastra umida) consisteva nelle seguenti fasi:

  1. Del collodio viscoso contenente ioduro di potassio veniva versato con attenzione su una lastra di vetro ben pulita.
  2. In camera oscura la lastra ancora attaccaticcia veniva immersa in una soluzione di nitrato di argento.
  3. Ancora umida la lastra veniva esposta nella fotocamera per circa trenta secondi.
  4. Prima che la soluzione, assai volatile, formasse una membrana impermeabile, la lastra veniva trasportata in fretta in camera oscura, cosparsa di acido pirogallico e sviluppata a vista sotto una luce arancione.
  5. I sali di argento non esposti venivano quindi fissati nell'iposolfito di sodio, o nel velenosissimo cianuro di potassio; quindi il negativo veniva lavato a fondo.
Il collodio formava un'emulsione splendidamente trasparente e permetteva una concentrazione di sali di argento che rendeva le lastre circa dieci volte più sensibili di quelle all'albume.

Naturalmente il dover rendere sensibile la lastra, esporla e svilupparla in brevissimo tempo rappresentava un grande svantaggio, specialmente per lavori in loco.
La circostanza più importante però fu forse il disinteresse di Archer nel brevettare il suo sistema (egli morì in grande povertà e poco noto) perché per la prima volta il fotografo inglese fu posto in condizione di poter esercitare liberamente la fotografia usufruendo di un processo più efficiente.
La lastra al collodio infatti richiedeva pose abbastanza brevi per il ritratto, offriva un eccellente livello qualitativo e permetteva di moltiplicare le stampe usando la carta all'albume.

Henry Fox Talbot pretese erroneamente che il procedimento al collodio fosse coperto dai suoi brevetti. La questione fu risolta una volta per tutte quando egli promosse un'azione giudiziale contro Laroche, un fotografo di Oxford Street. In tribunale si giunse persino a porre in discussione il diritto di Talbot ad attribuirsi l'invenzione del calotipo, e ciò in considerazione dei contributi di Reade ed altri. Alla fine la giuria decise che Talbot, essendo stato il primo a render noto il procedimento del calotipo aveva il diritto di richiederne il brevetto, ma che i ritratti al collodio di Laroche non ne costituivano violazione.
Talbot aveva quindi perso il suo monopolio; poiché anche i brevetti sul dagherrotipo erano spirati nel 1853, la fotografia era finalmente divenuta libera.
Iniziò allora un formidabile sviluppo della popolarità e delle applicazioni della fotografia al collodio, e ciò sarebbe durato per una trentina d'anni.
L'aumento dei fotografi ritrattisti inglesi fu fenomenale: 51 fotografi nel 1851, 2879 fotografi nel 1861, anche perché  la gente di ogni classe sociale pretendeva ormai la "somiglianza".
Prese gran voga una variante a basso costo del procedimento al collodio nota sotto il nome di "ambrotipo"; essa era semplicemente un negativo al collodio sottoesposto e sbiancato con sublimato corrosivo (cloruro mercurico), in modo da formare una immagine biancastra che veniva sistemata su velluto nero o su altra superficie del medesimo colore.
Alla luce riflessa l'immagine appariva positiva, all'incirca come accade oggi con un negativo leggero visto contro uno sfondo scuro.
In questo gli ambrotipi somigliavano ai dagherrotipi, perché il materiale esposto nella fotocamera diventava il prodotto finale.
Essi venivano eseguiti rapidamente e necessitavano di piccole quantità di prodotti chimici poco costosi; divennero popolarissimi in America tra il 1850 ed il 1860.
Un'altra variante era costituita dai "ferrotipi" che si avvalevano di una sottile lastra metallica laccata in nero e che quindi, per la loro robustezza erano adatte ad essere portate in viaggio o spedite per posta.
Assai accetti in America lo furono meno in Europa a causa del loro aspetto di ritagli di latta.
Il ferrotipo è ancora usato da pochi fotografi ambulanti nei paesi del terzo mondo.
La nuova industria del ritratto, unita alla credulità del pubblico, indusse i commercianti ad offrire fotografie come oggi si offrono buoni sconto; nei quartieri poveri delle città si ingannava la gente con ambrotipi scadenti assicurando loro che la qualità sarebbe migliorata dopo l'esposizione all'aria.
Un'altra strada maestra, sopratutto per il bravo fotografo al collodio, fu tracciata dalla "carte de visite": lanciata dal fotografo parigino Disderi, la moda si affermò: queste fotografie formato biglietto da visita venivano prodotte in più esemplari e simultaneamente su un'unica lastra, in modo che una sola stampa a contatto fornisse diverse copie.
Si dice che nel 1861 Disderi ricavasse un reddito lordo annuo di 48.000 sterline da un solo studio.
La mania della "carte de visite" si propagò ben presto anche all'Inghilterra e all'America.
Negli anni che vanno dal 1860 al 1870, l'amore vittoriano per le raccolte di ritratti della famiglia reale, di uomini politici e di altre personalità causò in Inghilterra una circolaziona annua di quattrocento milioni di "carte de visite". Nacquero e fiorirono molte associazioni e riviste fotografiche; i resoconti sulle mostre fotografiche affollavano le colonne dei giornali, così come oggi avviene per spettacoli cinematografici e televisivi. Sfortunatamente gran parte del lavoro era erroneamente diretto verso l'obiettivo di elevare la fotografia a forma d'arte, adottando lo stile della pittura romantica.
Lavorare fuori studio usando il procedimento al collodio umido era decisamente scomodo in quanto era necessario portarsi appresso tende che fungevano da camere oscure, casse di reagenti chimici e persino barili d'acqua. Fotografi intrepidi venivano scacciati come stregoni dai villaggi più remoti. Tuttavia lo spirito pionieristico dell'epoca indusse persone come Roger Fenton a montare la camera oscura su un carro trainato da cavalli e recarsi a fotografare la guerra di Crimea nel 1855 o, come Mathew Brady, a seguire con un calesse "fotografico" la guerra civile americana resistrandone quasi tutte le fasi su oltre settemila negativi al collodio.
A Parigi Felix Nadar compì riprese aeree da una mongolfiera.
Dagherrotipi stereoscopici erano stati prodotti sin dal 1847-1848.
Ora le stampe o le diapositive all'albume, partendo da negativi al collodio, permisero di immettere sul mercato coppie di fotogrammi stereoscopici in grandi quantità e a basso costo.
Nel 1858 una società londinese offriva sui propri cataloghi oltre centomila stereogrammi che riproducevano monumenti e panorami di tutto il mondo. Nell'epoca vittoriana lo stereoscopio da salotto possedeva un'attrattiva paragonabile a quella esercitata oggi dal televisore.
L'ingenuità degli stereogrammi e delle "carte da visite" si spiega considerando che allora le immagini stampate si riducevano alle xilografie ed alle incisioni litografiche.
Gli anni compresi tra il 1860 e 1870 videro l'affermarsi degli ingranditori, assolutamente necessari quando si doveva fare una grande stampa partendo da un negativo formato "carte da visite".
Essi alleggerirono anche il lavoro del fotografo il quale altrimenti avrebbe avuto bisogno di una fotocamera di enorme formato per una stampa destinata ad una mostra.
I primi ingranditori, come gli americani Woodward del 1857 e Monckhoven del 1864 usavano la luce solare riflessa da uno specchio attraverso un'apertura nella parete della camera oscura. A causa della scarsa sensibilità della carta all'albume, si preferiva di solito preparare l'ingrandimento di un negativo al collodio da cui ottenere una stampa mediante il sistema a contatto.


Le lastre "asciutte".


Il formidabile sviluppo della fotografia attuatosi intorno alla metà del 1800 fu dovuto al procedimento al collodio: era inevitabile che questo stesso procedimento "umido" divenisse gradualmente intollerabile per il lavoro fuori studio. Furono tentati vari modi per preservare il collodio al fine di separare i momenti di preparazione, sensibilizzazione, esposizione e sviluppo della lastra, ma il risultato fu sempre quello di ottenere una diminuzione di sensibilità.
Nel 1871 però un articolo comparso sul British Journal of Photograpy, il Dr. Richard Maddox,  fisico e dilettante di fotografia, suggeriva cautamente di sostituire la gelatina al collodio.
Due anni dopo il fotografo londinese John Burgess cominciò a vendere in bottiglia emulsioni di gelatina al bromuro; i risultati però furono poco soddisfacenti per la presenza di altri sottoprodotti come nitrato di potassio. Sempre nel 1873 anche Richard Kennett mise in vendita lastre asciutte già pronte ed emulsioni in pellicola che si dimostrarono estremamente sensibili, anche più di quanto  era possibile attendersi dalla quantità di sali in esse presenti.
Ma bisognò arrivare al 1878 perché Charles Bennett scoprisse e rendesse noto che mantenendo l'emulsione alla temperatura di 25°C per un periodo compreso tra quattro e sette giorni, si otteneva una "maturazione" che ne accresceva la sensibilità.
La complessa preparazione delle lastre asciutte sottrasse ai fotografi il compito di sensibilizzarle da soli. Fabbricanti inglesi quali Wratten (inventore dei filtri in gelatina commercializzati in seguito dalla Kodak) & Wainwright oppure The Liverpool Dry Plate Co. progettarono i propri macchinari e detennero un monopolio nel mercato delle lastre asciutte sino al 1880 circa, quando anche all'estero di iniziò a seguirne l'esempio.
La sensibilità delle emulsioni permise tempi di posa di 1/25 di secondo, rendendo necessari gli otturatori.
Poiché anche il trattamento successivo alla posa poteva essere eseguito da terzi in un secondo momento, proliferarono i laboratori di sviluppo e stampa.
La fotografia amatoriale quindi si diffuse enormemente e nel 1883, pressoché nessuno usava più il procedimento al collodio.


Le fotocamere da usare a mano libera.


La libertà di azione consentita dalle sensibili lastre asciutte e l'espansione del mercato fotografico incoraggiarono il sorgere di nuove idee nella progettazione di fotocamere.
Poiché queste ultime potevano essere usate agevolmente a mano libera, i fabbricanti cominciarono a produrre apparecchiature compatte e leggere. Fecero la loro comparsa fotocamere che potevano essere caricate con 12 lastre e che erano munite di dispositivi meccanici esterni per consentire di collocare la lastre stesse sul piano focale una dopo l'altra; furono altresì immessi sul mercato apparecchi fotografici "da investigatore": piccoli oggetti-giocattolo camuffati da pacchetti, binocoli, bastoni da passeggio ecc.
La fotocamera che introdusse novità più significative e più pregne di conseguenza fu la Kodak N.1 prodotta da George Eastman, già impiegato di banca a New York ed ora fabbricante di lastre.








Eastman intuì che un grosso mercato potenziale era costituito dalle persone che pur interessandosi di fotografia non intendevano prendersi il disturbo di caricare gli chassis, adoperare apparecchi complicati e sviluppare il materiale.
Il suo apparecchio fotografico da 25 dollari destinato alle masse era una semplice scatola che conteneva un rotolo di carta sensibile lungo più di sei metri e largo circa 7 cm, sufficiente ad ottenere 100 negativi circolari di 6,3 cm di diametro. L'obiettivo F/9 era a fuoco fisso e l'otturatore era "istantaneo".
Per caricare l'otturatore bisognava tirare una cordicella, per esporre bastava premere un bottone e per trasportare il negativo era sufficiente girare una chiave. Tutto qui.
Una volta scattate le 100 fotografie la fotocamera veniva rispedita alla fabbrica di Eastman a Rochester. Qui il rotolo veniva tagliato a strisce e sviluppato; quindi l'emulsione veniva staccata e deposta su un supporto trasparente. Da tutti i negativi ben riusciti venivano tratte delle stampe che venivano incollate su piccole montature e rispedite al dilettante insieme alla fotocamera ricaricata. Tutto ciò veniva a costare 10 dollari.
Nel 1889 il rotolo di carta venne sostituito con pellicola a rullo a base di nitrocellulosa (inventata nel 1887 da H. Goodwin del New Jersey) e sei anni dopo la pellicola venne avvolta insieme ad un dorso di carta per consentire la ricarica alla luce del giorno.
Il motto di Eastman "Voi premete il bottone, noi facciamo il resto" ebbe vasta risonanza in tutto il mondo.
L'apparecchio Kodak cambiò completamente la natura della fotografia amatoriale, trasformandola da un procedimento riservato a pochi iniziati in una attività consentita a tutti.


Il secolo XX.


La fotocamera di George Eastman doveva influenzare altre importanti invenzioni prima della fine del secolo XIX.
Nel 1889 Thomas Edison, occupandosi di una apparecchiatura destinata a fotografare soggetti in movimento, si mise in contatto con Eastman per ottenere una partita della nuova pellicola flessibile.
Edison divise la pellicola a metà, riducendola ad una larghezza di 35mm, e praticò delle perforazioni di trasporto sui due lati: nacque la pellicola cinematografica standard. Nel 1924 Oscar Barnack, dipendente della Leitz, progettò una fotocamera da collegare al microscopio che potesse usare pellicola cinematografica. Fu questa l'origine della Leica (LEItz-CAmera), la prima fotocamera di precisione da 35mm.
Tra i vari miglioramenti dei materiali fotografici val la pena di menzionare il passaggio delle pellicole sensibili solo alla luce azzurra a quelle ortocromatiche (1885) e poi a quelle pancromatiche, grazie sopratutto alle ricerche di H. Vogel; a lui si devono anche gli inizi sperimentali di sistemi pratici di fotografia a colori.
Anche gli studi sugli obiettivi progredivano lentamente: nel 1889 l'obiettivo Anastigmat di Rudolf fu un passo importante per l'ottica fotografica moderna.
Lo stesso Eastman investì enormemente in laboratori di ricerca ponendo le basi per scoperte importantissime quali la Kodachrome del 1935.
Il secolo XIX iniziò con rozzi fotogrammi non fissati di Wegwood e terminò con una tecnica fotografica in bianco e nero non dissimile da quella odierna.
Nell'intervallo la fotografia fu salutata come l'attività che succedeva alle belle arti, fu derisa come trucco da ciarlatano, fece accumulare enormi fortune, si dimostrò un mezzo di comunicazione rivoluzionario pregno di ampie ripercussioni sociali, e ricevette ampia pubblicità.
Il secolo XX ha visto fiorire un gran numero di applicazioni della fotografia, ma la fotografia ha acquisito dignità di mezzo interpretativo autonomo e non viene più considerata un sostituto delle altre arti figurative.
Il problema di chi abbia "scoperto" la fotografia è ancora irrisolto e, considerato retrospettivamente, appare irrilevante.

2 commenti:

  1. Tempo fa girovagando su internet, mi sono imbattuto in queste foto.
    http://www.boston.com/bigpicture/2010/08/russia_in_color_a_century_ago.html

    Sono foto scattate con tecnica sperimentale utilizzando tre scatti in bianco e nero filtrate con i colori primari e poi proiettate anteponendo dei filtri per ricostruire la corretta colorazione originale.
    Il tutto avvenne all'inizio del 1900 per ordine dello Zar di Russia che voleva documentare il proprio popolo; il fotografo era Sergey Prokudin-Gorsky.
    E' emozionante vedere i colori di un periodo che ci è giunto inesorabilmente in bianco e nero.

    http://en.wikipedia.org/wiki/Sergey_Prokudin-Gorsky
    Questo fotografo sperimentatore anticipatore di un'era di la a venire, per la mia opinione andrebbe ricordato e penso che possa esserti gradito.
    Con stima, tanti saluti,
    Luca Nuvolone

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    1. Grazie Luca, conoscevo bene Sergej Prokudin Gorsky, ma è impossibile condensare la storia della fotografia in poche righe. Ho voluto dare i cenni principali e suscitare curiosità, ma occorre approfondire su più di un testo per formarsi un'idea della vastità dell'argomento.

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